L'orso ballerino

Ricordo: ero in India dentro un pullman scassato, come al solito. Mezzi di locomozione nuovi qui non ne vidi mai, neanche l’ombra. Mi venne perfino l’idea che li producessero deliberatamente già vecchi, logori, apparentemente usati, strisciandoli e ammaccandoli, così come in occidente si usa fare con certi jeans per dargli un’aria vissuta.

Dunque, mi trovavo dentro una piccola gabbia di vetro e ferro arrugginito completamente sigillata, che errava su quattro ruote sbilanciate: una prigione ad aria condizionata. I finestrini erano tutti bloccati e l’aria fresca usciva troppo abbondantemente e rumorosamente dalle griglie di aereazione distribuite molto generosamente all'interno del pullman: era come trovarsi sul ponte di una barca a vela navigando in mare aperto, col vento forte e contrario.

Magica India!

Questo paese ti entra nell’anima, non te ne dimentichi più, a distanza di anni ogni tanto mi riaffiora prepotentemente qualcosa. Eppure certi episodi quando li vissi mi parvero piccoli, quasi insignificanti, ma adesso scopro che sono rimasti dentro di me come macchie indelebili.

Durante quel giro c’erano con me europei di varie nazionalità ma anche alcuni italiani. Dopo diverse ore di viaggio ci fermammo nel mezzo della jungla lungo l'immenso sterrato che la attraversava, avevamo alle spalle un lungo percorso pieno di buche su cui si sobbalzava continuamente, procedevamo lungo un’enorme "forma di gruviera", e l'autista aveva bisogna di una tregua.

Fermi! E dietro, finalmente, non si stava più alzando la lunga scia di polvere senza fine che nascondeva tutto.

L'uomo si era fermato perché non ne poteva più di sobbalzare come una marionetta, doveva avere la sensazione di possedere due molle al posto delle reni.

Non potevamo scendere, non si potevano aprire i finestrini per via degli insetti: se l'avessimo fatto saremmo stati invasi da mosche e zanzare, e non solo, e ai lati avevamo la foresta insidiosa: strani rumori lontani si diffondevano mescolandosi con il fruscio dell’aria condizionata, fischi, sibili, trilli, facevano rabbrividire a volte. Versi di uccelli, di scimmie, ma anche di altri animali sconosciuti, mai uditi prima: per me indefinibili.

Pensavo agli occhi neri, vuoti e profondi contemporaneamente, di quegli animali selvaggi che a volte durante questo viaggio avevo avuto occasione di osservare da vicino: ogni volta mi avevano ricordato qualche essere a due zampe appartenente al consorzio umano, e che purtroppo avevo conosciuto.

Eravamo fermi sul bordo della pista di terra battuta con il motore acceso: l'autista era spossato, disteso sul volante dormiva profondamente.

Noi stavamo bene: che fretta si poteva avere?.

Fin dall'inizio del viaggio mi ero aggrovigliato sul collo, facendolo girare due o tre volte intorno, un foulard di seta indispensabile per evitare torcicolli o strappi, e indossavo una giacca di tela per proteggermi la pancia, così come ci aveva raccomandato la guida: l'azione di quest'aria fredda a volte aveva avuto effetti devastanti in alcune persone.

Il sentiero era come una vena lungo l’organismo della jungla attraverso cui noi, "globuli bianchi", fluivamo.

Sbam Sbam Sbam.

Dietro di me uno dei miei compagni di viaggio, un milanese molto cordiale col quale avevo avuto modo di chiacchierare affabilmente, stava sbattendo il palmo della mano sul vetro del finestrino, sembrava particolarmente emozionato e arrabbiato.

Sbam sbam sbam.

Mi girai.

     - Ueh pirla lascialo stare, guarda che pirla, - ce l’aveva con un indiano che era fermo sul bordo della strada, il quale non poteva proprio sentirlo e comunque non avrebbe certo capito il milanese.

L’ uomo, a un metro dalla fiancata del pullman, sembrava vivere in un altro tempo, calzava sandali di cuoio e intorno alla testa aveva un importante turbante. Di carnagione molto scura, era corredato da una folta barba e lunghi baffi all'insù, gli occhi neri come due pezzi di carbone erano iniettati di sangue. Placido e indifferente non si sforzava, né gli interessava, capire il perché di quelle manate sul vetro del finestrino.

Sbam sbam sbam.

     - Ahhh che pirla! Ahhhh che baffi da pirla!

Quella che sembrava una lunga coda dietro di lui, che aveva origine tra le sue natiche, era in realtà una corda che partiva dalla cintura e finiva, alcuni metri dopo, annodata intorno a un anello di metallo conficcato nelle narici di un piccolo orso bruno. L’orsetto era disteso sullo sterrato, a pancia in su, e pareva stremato. Non aveva unghie, non aveva zanne, sembrava un enorme animale di peluche che avesse esaurito la carica meccanica.

     -Và a dà via i ciapp! Sai dove ti infilerei l’anello io, - proseguì.

L’indiano sembrava proprio non capire cosa volesse quel turista da lui, dette due tiri di corda all’orsetto che ebbero l'effetto di alcuni giri di carica: immediatamente l'animale si alzò, iniziò a ciondolare e a dondolare, pareva danzasse.

     - Ciaparàtt! (buono a nulla) SBam sbam sbam.

Il compagno di viaggio era fuori di sé, minacciosamente fece il segno della pistola all’indiano: indice e medio dritti e pollice a novanta gradi, fece il gesto di prendere la mira e di sparargli ripetutamente, mirando alla testa.

L’indiano sorrise ma un po' dovette inquietarsi perché in una manciata di secondi, accelerando il passo, scomparve dentro la boscaglia insieme all' l’orsetto che faceva ogni passo danzando e spostando il peso del corpo da una zampa all'altra per evitare nuovi strappi: l'avevano addestrato a muoversi così.

     - Papà non ti devi arrabbiare così, lo sai no che non te lo puoi permettere, - la voce era di una ragazzina sui sedici anni, la figlia.

L'uomo mestamente estrasse dal taschino un paio di pastiglie, se le cacciò in bocca e le deglutì con un sorso d’acqua.

Mi guardò, quindi mi sussurrò piano, per non farsi sentire dalla ragazza:

     - Ho subito il trapianto del fegato, sono in viaggio con lei, glielo avevo promesso, noi due soli perché sua madre non c’è più. Sono un "triccheballacche umano" ormai, devo prendere sei pastiglie al giorno per andare avanti, sono tante. Sai, da quando ho avuto l’intervento non sopporto più di vedere soffrire nessuna creatura: né umana, né animale, perdo la testa.

Pensai che da noi questi spettacoli non si fanno: non ci sono più orsi!

                                                                                                                     19 gennaio 2014

 

P.S.Gli orsi ballerini, ammaestrati sempre violentemente, venivano utilizzati per strada per dare spettacolo, in cambio di qualche moneta, in India ma anche in Romania, Bulgaria e Serbia, secondo una tradizione che sembra risalire al 13° secolo. Oggi, in tutti questi paesi, compresa l'India da fine 2012, queste pratiche sono state vietate.

 

 

 (Photos by Gregory Maiofis)