San Francisco, estate 2009 – frammenti
Pochi giorni prima della partenza per San Francisco incappai in un paio di letture
poco felici che dicevano: “l’energia che il terremoto del 1906 liberò sulla città, distruggendola completamente, fu pari a quella della bomba atomica sganciata su Hiroshima” e: “alcuni illustri
scienziati prevedono imminente il big one sulla costa ovest. E’ molto alta la probabilità che avvenga nell’area intorno a San Francisco”. I soliti ciarlatani? Ma se fosse arrivato quel
terremoto saremmo rimbalzati da una parete all’altra dell’albergo dove ci trovavamo, come palline da ping pong: gli edifici, fatti per resistere a movimenti sussultori e ondulatori anche molto forti,
avrebbero funzionato come racchette.
Ricordo che ripensavo a ciò la prima notte che passammo a San Francisco, in una
fresca, ampia, spartana camera matrimoniale al quinto piano in un albergo in pieno centro. Ma i pensieri li tenni per me, non volevo rompere l’estasi che aveva raggiunto mia moglie, da quando avevamo
toccato il suolo di questa meravigliosa città dell’ovest, tutta protesa verso il Pacifico. Evitai di manifestarli perché avremmo parlato dell’inquietante capacità della faglia oceanica di portare a
spasso questo pezzo di mondo.
Dunque, immaginavo le danze acrobatiche degli edifici, i solai flettersi come reti
elastiche, le travi oscillare come corde di chitarra durante appassionati arpeggi di flamenco, i comignoli alzarsi come i cappelli che, in altri tempi, si usava sollevare sopra la testa quando si
salutava con deferenza. Ma a queste cose ci pensai per una manciata di minuti soltanto la prima notte, poi me ne dimenticai: il vento fresco proveniente dall’oceano li spazzò via completamente,
svolgendo una funzione anestetizzante per qualsiasi forma di paura o timore.
A San Francisco ci fermammo per una settimana intera: giravamo come trottole dalla
mattina alla sera, salivamo e scendevamo dalle colline su cui è costruita buona parte della città e, soprattutto, camminavamo lungo la baia, prendevamo gli autobus di linea solo se i tratti da
percorrere erano troppo lunghi.
Come è vero che a messa si respira incenso nei momenti clou della funzione, qui si
respira intraprendenza e voglia di osare. L’anima pionieristica è ovunque, sale dalle pietre lungo le vie, ti avvolge! L’euforia ti prende in un attimo come se assieme all’ossigeno nell’etere vi
fosse anche del gas esilarante.
Le notti successive, prima di addormentarmi, mi scorrevano le migliaia di fotogrammi
di quelle giornate piene: pensavo al Golden Gate, alla baia, alle spiagge oceaniche che potevamo raggiungere facilmente prendendo un autobus, e della fisica delle faglie me ne dimenticai
completamente.
La California, con San Francisco in particolare, è il cuore pulsante del mondo:
l’estro creativo, il rifugio degli spiriti liberi, l’ovest estremo dei pionieri della scoperta dell’America, la città emblema dell’ ambizione e del coraggio, l’epicentro oltre che dei terremoti
geologici anche di quelli del costume e della tecnologia.
Immersi tra la gente parlottavamo con tutti, e in nessuna altra città degli Stati
Uniti c’era parso di trovare tanta cordialità e disponibilità.
Si assaporava l’alterazione del tempo, la sospensione delle cose, la levitazione
delle idee: camminavamo a due metri da terra.
Ci vestivamo “a cipolla”, a strati. Il sole splendeva e ti riscaldava, il sole
scompariva e subito la temperatura calava di dieci gradi: caldo, freddo, felpa si, felpa no, ombra, sole, freddo, caldo: togli rimetti, togli-slaccia-rialaccia i vestiti.
- Prima o
poi, appena possiamo ci fermiamo qui qualche mese, - ci dicevamo, ce lo promettevamo a vicenda.
Per strada, dopo qualche giorno:
- Hey Joe
come va?
Chi era Joe?
Dopo alcuni giorni di permanenza avevamo fatto amicizia con un homeless, lo
incrociavamo ogni volta che percorrevamo a piedi la strada che ci portava alla baia. Lui ci salutava, scambiavamo qualche frase, gli lasciavamo qualche monetina, l’intascava, ringraziava.
- Hey Joe how are you doing?
- Sono un homeless, - diceva alzando le spalle - si starebbe bene qui a San
Francisco, ma a me è andata così, un tempo vivevo a Chicago, facevo l’elettricista, avevo una moglie e una figlia che un giorno finirono sotto l’autobus, e … fine, lasciai tutto.
Silenzio.
- Ma e
rifarti una vita, con calma, col tempo?
- No, non
sempre ci sono o si vogliono altre vite. Per me quella era l’unica che volevo, l’unica possibile.
- E di
notte?
- Dormo
dentro uno scatolone, vicino all’oceano, siamo una riga di homeless, e siamo tutti amici, qui non è come all’est.
- In riva
all’oceano Joe? Dici sul serio?
- Facciamo
anche noi gli homeless Serenella?
Joe sorrise divertito.
- Quasi in
riva all’oceano, un poco arretrati per proteggerci dal vento, però se salgo su un albero che so io, si vede: a volte lo faccio.
Lungo la costa ovest, sembra che tutto sia in armonia, che la gente sia di un altro
genere rispetto quella della costa est dove sembra di muoversi dentro una vetreria.
Andavamo a mangiare il granchio al porto, poi ci recavamo al molo Pier 39 sulla
baia, richiamati dai versi dei leoni marini, numerosi come le cicale in campagna durante le sere d’estate, decine o forse centinaia, un piccolo circo: distesi sui pontili, richiamavano tutti i
passanti.
Tutto è normale in questa parte di America! Un giorno mentre camminavamo lungo la
spiaggia, due sagome scure che si muovevano nell’acqua al largo, lentamente si avvicinarono a riva, una emerse: un uomo nero enorme con una spessa muta, aveva nuotato per chilometri nella fredda
acqua oceanica. L’altra sagoma, che finalmente ora si distingueva, era quella di un leone marino che aveva accompagnato l’uomo lungo tutta la sua nuotata fino a riva. Rimasto solo nell’acqua, il
leone marino sconsolato si girò e riprese il largo.
All’orizzonte si stagliava The Rock “Alcatraz”, la prigione
simbolo, oggi chiusa, meta di turisti e soggetto di tanti film.
Veloce passò la settimana e l’ultimo giorno andammo a ritirare l’auto con cui
avremmo percorso oltre cinquemila miglia prima di ritornare a San Francisco. Ma prima di partire programmammo un’ultima visita all’Università di Berkeley, avremmo poi iniziato a scendere verso il sud
della California.
Passammo l’Oakland Bay Bridge guidando l’auto appena ritirata col
cambio automatico, facile e comodo. Fu quando scesi dall’auto che avvenne un fatto sgradevole: scivolando cozzai violentemente sullo spigolo della portiera aperta, sentii la lente degli occhiali da
sole che indossavo saltare via, avvertii un rivolo di sangue scendere copioso. Ho perso l’occhio! Pensai. Lentamente lo aprii: ci vedevo, ce l’avevo ancora! Gli occhiali erano spezzati in due e avevo
un bel taglio sul sopracciglio.
- Che dici,
punti di sutura? - chiesi a Serenella.
- No, se
premi per qualche minuto con il fazzoletto il taglio si chiude.
La sera prima Serenella aveva fatto una piccola indigestione, forse con una zuppa
che avevamo acquistato in un supermercato. La sua voce saliva da dentro l’auto, quasi arrampicandosi, lei era piegata in due per via del mal di pancia.
- Te la
senti di venire dentro l’Università?
- Certo che
si, camminerò in un modo un po’ strano.
- E io no?
Attaccati al braccio.
Ci muovevamo in un modo singolare: lei piegata in due agganciata a me ed io col
braccio sollevato che mi premevo una pallottola di fazzoletto sul sopracciglio.
Dopo un po’ ci fermammo: si, eravamo nel Walhalla dei Nobel. Un docente, come
nell’antica Grecia, declamava la sua lezione all’aperto in piedi in un prato, circondato da alcune decine di studenti comodamente distesi intorno a lui, che lo ascoltavano rapiti e silenziosi.
Nessuno si accorse di noi, e questa scena da sola valse l’intera visita.
02 dicembre 2013