La notte è come una lavagna di ardesia con ali di falena, che si
muove lungo uno sfondo retroilluminato da piccoli chiarori di soffuse lampadine a LED, di cui molte bruciate.
Una briciola di notte l’ho conosciuta lavorando per
le “Poste e Telegrafi”, quand’ero studente universitario, a caricare e scaricare sacchi postali dai treni della stazione di S. Lucia di Venezia.
Facevo parte della “squadra della notte”, costituita
da cinque elementi, me compreso, under venticinque e totalmente precaria perché ogni tre mesi veniva ricostituita con nuove e incognite risorse. Tra un treno e il successivo, a volte, avevamo lunghe
pause in cui eravamo sostanzialmente liberi di fare quello che desideravamo.
Quel periodo di lavoro trascorse in modo insipido,
umanamente parlando, non legai con nessuno, anzi, divenni un corpo ostile innestato malamente in un ibrido, di un gruppo creato dal caso.
Non legai con il primo componente della squadra che
conobbi, apparentemente affabile: subito, parlando in dialetto e allacciandosi al mio braccio come se fossimo “due amiche” di lunga data, si qualificò come anarchico e scrittore. Un tipo grande,
grosso e panciuto, con una folta e lunga barba che non doveva tagliare da almeno un anno, dalle unghie nere come se avesse graffiato la terra con insistenza come fanno i cani e che, durante le notti
particolarmente umide, odorava di minestrone rancido.
- La bevi un’ ”ombra”? (in veneziano è un bicchiere
di vino rosso), – mi disse venendomi incontro.
Non ne avevo nessuna voglia ma, non volendo essere
sgarbato, accettai. Un’ora dopo facemmo un altro giro e offrii io, due ore dopo mi propose un terzo giro, gli dissi:
- Due bicchieri di merlot a me bastano per una
settimana.
Storse la bocca, mi parve offeso e deluso: su di me
aveva riposto molte aspettative che adesso gli crollavano. Nei giorni successivi, regolarmente, con cadenza oraria, lo vedevo andare al bar con qualcun altro. Da allora mi ignorò
definitivamente.
Non legai nemmeno con il secondo componente di questa
squadra: un tizio dai lunghi capelli mossi e tinti malamente di un color biondo-rossiccio, con la scriminatura al centro dove si evidenziava la ricrescita nera. Aveva grandi occhi scuri come il
carbone, dalle pupille perennemente dilatate, come se fosse appena stato dall’oculista. Parlava spesso della sua passione, anche se nessuno gli chiedeva nulla: l’eroina. Lui amava ripetere che
prendeva roba buona, e poteva smettere in qualsiasi momento. E si innervosiva per tutta la disinformazione che sentiva girare sull’ero.
- Ce la facciamo una canna? – mi
disse.
- Ti ringrazio – gli risposi – ma io non fumo niente,
preferisco masticare del chewing gum al ginseng, ne vuoi uno?
Io masticai il chewing gum e lui si fece la sua
“canna”.
Il terzo era un appassionato di kick boxing con le
braccia smisurate, più robuste e lunghe delle gambe, come una scimmia antropomorfa. Passava ogni momento libero a colpire o i sacchi della posta o le colonne della stazione, e raccontava volentieri
delle sue zuffe in discoteca. Nessuno lo ascoltava, nessuno lo considerava, e lui allora si accaniva con i sacchi postali a cui menava colpi di dritto e di rovescio: bum bum calcio-gomito-pugno;
pugno-pugno-ginocchio.
- Vuoi che ti insegni la lotta tra l’arrivo di un
treno e l’altro? – mi disse dopo qualche giorno di convivenza lavorativa.
- Ti ringrazio, ma non mi piace proprio sudare e
neanche colpire con pugni o calci qualcosa o qualcuno, a meno che non ci sia costretto.
Infine, feci conoscenza con il quarto: un tizio con
un occhio che guardava fisso in alto verso il cielo.
Era uno distratto?
Il “barbuto” gli fece un cenno, allora lui sparì in
bagno e ritornò con uno sguardo perfetto: aveva soltanto inserito male l’occhio di vetro nell’orbita destra. Finalmente con gli occhi messi a modo mi si rivolse:
- Li hai conosciuti, - mi disse - sono tutti
sballati.
- Sul serio?
- Io abito a Mestre, uso la bambola gonfiabile tutta
la settimana, domani pomeriggio che è sabato, prima del turno, finalmente vado con le prostitute, vieni anche tu?
- No, non mi interessano le prostitute e l’unica cosa
gonfiabile che ho utilizzato finora è stato un coccodrillo che utilizzavo come salvagente quando andavo a nuotare al largo del Lido di Venezia.
Non avevo proprio niente in comune con quella squadra
di agenti straordinari delle PP.TT. : ognuno seguiva la sua direzione e il suo vento.
Camminavamo fianco a fianco in silenzio, e
scaricavamo sacchi, ne passarono tonnellate per le nostre mani in quei novanta giorni. Non ricordo i nomi, anzi, forse non me li dissero o non li ascoltai, e comunque quell’anno ero come un bruco in
una fase di metamorfosi: tutto proteso a seguire le mie mutazioni.
Mi fece comodo confondere i contorni del giorno e
scambiare il sole con la luna. Per dirla in modo più semplice: ero studente universitario e se lavoravo di notte di giorno potevo studiare.
A volte se volevo ottenere un po’ di buon umore
passavo per gli Uffici, poco distanti dal binario n.21, e assistevo al lavoro di smistamento dei “percussionisti” che provvedevano a timbrare tutto, secondo il ritmo dei tamburi africani da guerra. E
poi smistavano e indirizzavano.
Si, era la squadra delle tenebre!
Però a pensarci meglio, una cosa che condividevamo, e
che un po’ ci univa, c’era: i gradini di Santa Lucia, dove nelle pause tra un treno e il successivo ci sedevamo, e osservavamo la gente, il cielo, i vaporetti che frusciavano per il Canal Grande di
fronte a noi, e ascoltavamo i rumori notturni, dormendo a occhi aperti, rapiti e sincronizzati come pistoni, allineati come piccioni lungo un filo.
Dai gradini visionavamo il cinema in 3D, assistevamo
a risse, all’arrivo dell’ idroambulanza che ogni tanto veniva a prelevare la gente che si sentiva male, alle urla improvvise, ai borseggi veloci, agli inseguimenti disperati in cui l’inseguito
riusciva sempre a dileguarsi, alle cadute per le scale, ai voli dei pipistrelli e dei gabbiani, ai silenzi improvvisi.
Una notte, dall’altra riva del Canal Grande proveniva
l’ eco di una rissa fra due gruppi di ragazzi che se le stavano suonando, e si sentivano i colpi rimbombare, come se si percuotessero delle cavità vuote. Quando le ombre dei ragazzi si dileguarono
silenziosamente, come fili di fumo che salgono da braci che ormai andavano esaurendosi, avvenne un fatto, che non era mica niente di grave, ma ci sorprese, perché fu come se al cinema una scena
uscisse dallo schermo e avvenisse tra le poltroncine dove è seduto il pubblico: un maschio e due femmine, stavano seduti sui gradini, appiccicati a noi. Potevano avere tra i venti e i trent’anni:
allora non sapevo bene dare l’età alle persone. Venivano dalla Svezia, come si capiva dalle bandierine che orgogliosamente avevano messo sui tre grandi zaini su cui stavano appoggiati, come se
fossero gli schienali di comode poltrone.
Il ragazzo teneva gli occhi chiusi ma non stava
dormendo, di fianco a lui una delle ragazze guardava il cielo stellato, mentre l’altra due gradini più sotto muoveva la testa secondo un movimento regolare, come il beccheggio lento di una barca.
Questo episodio ci fece venire un sorriso a tutti e cinque, e ricordo che fu l’unico condiviso in quel gruppo così malamente assortito, di quei tre mesi in cui conobbi una briciola di vita
notturna.
29 settembre 2013