Ho staccato un campo di
nuvole, lo accudirò bene. Ogni uccello, felice, mi ha donato una piuma: spunterà una capanna
1. L'incontro
Yvanme lo presentò Chicca, con cui, già allora, convivevo a Treviso in un piccolo
appartamentino pieno di monitors, computers e libri. Siccome cucinavo poco, mentre viceversa leggevo continuamente, prima della sua magica comparsa, avendo poco spazio a disposizione, avevo
utilizzato anche gli armadietti della cucina per riporre la grande quantità di libri che avevo accumulato negli ultimi anni.
Ricordo, con un certo imbarazzo, la prima volta che Chicca, amabile come
sempre, volle cucinarmi un manicaretto: quando aprì lo sportello dell’armadietto in cucina, per poco non venne investita da una cascata di libri. Le pentole, nel tempo, le avevo relegate nell’ombra
del magazzino al piano terra. Non contento, le avevo sommerse sotto decine di scatoloni vuoti che avevano costituito gli imballi di stampanti, scanners, computers, schede varie, modem.. che allora
cambiavo frequentemente e che, non avevo mai né tempo né voglia, di schiacciare e mettere dentro la campana per la raccolta della carta.
Mi meravigliai molto, dopo la vicenda della “cascata”, constatando che le pile
di scatoloni, giù di sotto, avevano quasi raggiunto il soffitto.
Se dovessi dividere in due fasi principali la mia vita di allora potrei dire:
la vita prima di lei, del disordine, della polvere, degli orari rovesciati, e quella dopo di lei, dell’ordine, delle ore stabilite, dei profumi e delle essenze ovunque.
L’incontro con Yvan avvenne poco dopo che io e Chicca rientrammo da New York,
era l’inizio del 2002. Eravamo ancora intrisi, delle devastanti sensazioni che avevamo provato visitando la grande mela, avevamo appena visto ground zero, vivendo quella strana mestizia insieme a
quella eroica solidarietà dei newyorkesi. Fra l’altro, quando dopo molti anni di convivenza decidemmo di sposarci, ci rendemmo conto, credo un paio di giorni prima della cerimonia, che il giorno
fissato per le nozze, civili, sarebbe capitato proprio l’11 settembre, e semplicemente sorridemmo.
Yvan ci attendeva al tavolino di un bar a Mogliano Veneto, un paese tra
Venezia e Treviso, ricco di “esuli” veneziani che qui, più che in altri posti, hanno eletto la loro seconda patria lasciando una Venezia, ancora nel cuore, sempre di più esageratamente scomoda e
cara.
Io non avevo mai parlato con persone così anziane, e lui, il maestro del
colore, aveva ormai quasi ottantacinque anni. Sembrava ripiegato per quattro. Pensai : se un giorno anch’io dovessi vivere così lungamente, quando mi siederò mi ripiegherò come una
fisarmonica?
Ad una certa età uno diventa vulnerabile come un bambino di pochi anni e
qualche anno dopo, diventa come un neonato, o un uccellino in gabbia, secondo una regressione di crudele vulnerabilità, che condensa tutto il cinismo della natura e della vita.
Gli allungai la mano pregandolo di rimanere seduto. Faticosamente, ma a tutti
i costi, facendo leva con un avambraccio sul bastone da passeggio e con l’altro sul bracciolo della sedia, infine si alzò. Qualche istante dopo pensai che, mentre ci presentavamo, avevo inchinato la
testa, quasi facendo un saluto alla giapponese. E mi era venuto istintivo! Per un anarcoide del mio calibro, uno che non riconosce l’autorità e che non si piegherebbe né davanti a re, regine, o
presidenti, era davvero qualcosa di sorprendente e di cui mi stupii. Ma pensandoci: era nell’ordine delle cose, delle mie, inchinarmi non davanti al potere ma all’arte. E lui era un grande
artista.
Inizialmente io gli davo del lei chiamandolo Maestro e lui mi dava del voi,
come si usa a Venezia, chiamandomi ingegnere, nonostante, ormai da qualche anno, io avessi abbandonato la professione per altre cose e lui, per motivi di cui dirò, avesse smesso di
dipingere.
Parlò in veneziano fin dal primo momento, che era per entrambi la prima
lingua, creandomi la gradevole sensazione di ritornare all’infanzia e alla famiglia.
Parlammo cantilenando. Mentre sorseggiavamo un bicchiere di prosecco le esse
riverberavano e facevano free climbing attorno a noi come se ci stessero accompagnando i violini. Ci fossero stati degli “italiani veri”, avrebbero pensato che stessimo scherzando, invece stavamo
parlando con grande serietà.
Il cameriere era molto ossequioso e si trovava sempre vicino al nostro tavolo,
pronto a servirci, come se volesse unicamente lavorare per noi: non mi era sfuggito come, poco prima, aveva fatto cenni infastiditi verso due tavolini da cui continuavano a
chiamarlo.
Eravamo in un bar di paese e avere un artista veneziano così importante lì
faceva sentire al centro del mondo: sapevano chi fosse!
Quando, forse un’ora dopo, ci alzammo, il cameriere lo aiutò prontamente
spostandogli la sedia, chiamandolo Maestro. Nel bancone, a pochi metri da noi, il suo collega assieme all’altra cameriera parvero fermarsi, mi sembrò che tutti avessero smesso di parlare. Salutammo,
e uscimmo infilandoci nel buio appena sopraggiunto.(continua 2.)