Bang Bangla Desh

Non c’era ancora internet di massa, così come la conosciamo oggi, allora veniva utilizzata solo da chi aveva nozioni del sistema operativo MS DOS e alle spalle una ditta abbastanza importante e con una buona capacità di spesa.

I telefonini, timidi come pulcini dopo aver appena rotto il guscio dell’uovo, - ma grossi come piccioni - mettevano fuori le prime testoline. In Europa e nel resto del mondo li chiamavano mattone, usando il termine inglese: “ brick”.

Vagamente mi ricordo dei tipi che li utilizzavano, giravano con una specie di faretra a tracolla, da cui sbucava un’unica lunga freccia da quasi un metro: l’antenna.

Una cosa antidiluviana che si portavano appresso i rappresentanti e pochi altri, più per una dimostrazione di “forza fisica ed economica” che per altro. E quando si vedevano in giro nessuno capiva di cosa si trattasse.

Mattoni da 700 grammi che sembravano batterie ausiliarie per diversamente abili.

Le domande:

            - Servono per il peace maker!? Per chi soffre di insufficienza renale!? Per alimentare i primi cuori artificiali!?

Dunque gli uomini bionici iniziavano a circolare?

E invece servivano proprio per telefonare, costavano una follia ed erano poco più che grosse e pesanti radio portatili.

Tutto questo per dire che eravamo poco dopo la metà degli anni ottanta quando affrontavo il mio primo battesimo dell’aria di cui qui parlerò: il primo volo della mia vita, il mio primo viaggio intercontinentale. Fu la prima volta che attraversai il cielo e le nuvole. Andavo verso il magico e misterioso estremo oriente.

Avevo pochi soldi: scelsi il volo più a buon mercato che trovai, secondo le piccole disponibilità e le grandi follie di gioventù!

Dopo una manciata di minuti ero consapevole che se non ero dentro un enorme pipistrello ferito, che non utilizzava neppure gli ultra suoni, allora mi trovavo nell’interno di una mummia riciclata di pterodattilo, al cui interno avevano inserito il motore forse di uno scooter.

L’aereo era un catorcio! I sedili scassati – di cui molti vuoti -, avevano tutti delle lunghe cicatrici cucite alla buona: dovevano averli squarciati in mille modi. Sembrava fossero stati accoltellati, magari li avevano utilizzati per il training dei futuri e numerosi assassini che avrebbero poco dopo operato in Bosnia, e in tanti altri luoghi impensabili e vicini a noi.

Vibrava, ronzava, puzzava … portato da un comandante che aveva un talento straordinario per individuare i vuoti d’aria: riusciva a prenderli tutti. Una vecchia giostra condotta da un indiano, un sikh con lunga barba e turbante.

Un pensiero: se sopravvivo, posso volare ovunque e con qualsiasi cosa! Forse anche con ali fatte di canne, piume e cera. Potrei anche riprovare quello che era andato male a Icaro.

Di tanto in tanto improvvisamente scendevamo di decine di metri. Guardavo dal finestrino le ali dell’aereo oscillare come se fossero di un gabbiano in volo e le nuvole che sembravano polmoni di fumatori accaniti: rilasciavano tanto “vapore-fumo”, gonfiandosi e sgonfiandosi.

Ero dentro un vecchissimo 707.

Il motore faceva lo stesso rumore a singhiozzo di quello del mio motorino quando finivo la benzina, sembrava affetto da bronchite.

Le tappe del mio viaggio, se fossi arrivato a destinazione, sarebbero state: Bangkok, Singapore e la Malesia. E avrei dovuto prendere molti altri aerei scelti sempre con lo stesso criterio: prezzo minimo.

E accadde!

Cosa?

Eravamo in avaria!

Tutte le “lucine cattive” all’interno dell’aereo si accesero, i beep beep diventarono assordanti come le cicale di notte in estate. Il comandante, lentamente e solennemente, in un inglese, di cui per intuizione capii il senso, ci disse che dovevamo atterrare a Dacca, nella capitale del Bangla Desh (allora era il paese più povero del mondo).

Il silenzio per qualche istante fu totale, e venne rotto da un tizio vestito di arancio del movimento di Hare Krishna, con il cranio rasato e un codino da topolino, che iniziò, improvvisamente, ad accelerare e ad aumentare il volume dei mantra, con un bisbiglio che aggiunse tensione a un’atmosfera in cui ce ne era già abbondantemente.

Minuti interminabili, poi finalmente, con le ruote toccammo la pista di atterraggio. L’aereo saltellò sulla modesta striscia di asfalto, come un capretto appena nato, i motori fischiarono tutti insieme, a bordo eravamo tutti nella posizione del siluro: raccolti e con la testa in avanti.

Anche il santone smise di recitare i mantra o forse la declamazione venne coperta dal rumore assordante dei motori.

L’atterraggio fu in fondo moderatamente drammatico.

Una specie di ambulanza con le luci di emergenza accese, stazionava in testa alla pista, ai cui lati c’era tanta acqua. Doveva esserci stata un’ immensa alluvione, molte case intorno all’aeroporto erano sott’acqua fino a quasi il tetto.

Andò bene, eravamo tutti illesi.

            Un responsabile della compagnia aerea ci accolse e ci illustrò la situazione:

          - I nostri ingegneri adesso controlleranno e metteranno a punto i motori , non c’ è niente di preoccupante, gli strumenti hanno segnalato al comandante alcune leggere anomalie e gli abbiamo ordinato di atterrare. Siamo molto scrupolosi!

            - Dunque cambieremo aereo? – gli chiesi.

           - No stia tranquillo, ripartiremo con lo stesso, non si preoccupi, - mi rispose.

Eravamo dentro la minuscola Hall della stanza di attesa, la macchina dell’aria condizionata produceva un rumore infernale, come se stessimo sempre decollando, e affacciandomi, incidentalmente, osservai gli ingegneri della compagnia aerea mentre verificavano il funzionamento dei reattori. A torso nudo avvolti in una specie di asciugamano colorato con il turbante in testa, distendevano le loro magliette personali per controllare che i reattori spingessero: le magliette sbandieravano - si fecero l'un l'altro pollici su" - i reattori erano perfettamente funzionanti.

Bene!

Dopo un’ora di attesa arrivò un impiegato a distribuirci delle fette di pane, il cui aspetto non mi convinse, neanche un po’: erano tutte percorse da uno strano colore bluastro. Io preferii recarmi al bar e prendere qualcosa di confezionato. Avevano dei biscotti uguali a quelli nostri, quelli tondi con il buco al centro: finalmente!

Ne mangiai due, non erano malaccio, ne presi un terzo e come per un gioco di prestigio mi accorsi che la parte rimanente del pacchetto era costituita da paglia gialla.

Passarono le ore, e dovetti recarmi al bagno, fortunatamente si trattò di un semplice allarme n.1. Iniziai gli esercizi di iperventilazione per poter durare all’interno del bugigattolo almeno un minuto e mezzo senza respirare. Con il piede destro spinsi la porta, delle piccole torrette di babele, color marron antico mi accolsero insieme ad un’orda senza fine di mosche blu. Non toccai niente. Uscii cianotico ma ci riuscii: di quell’aria non aspirai una molecola di numero.

In tutto l’edificio dell’aeroporto che, se non ricordo male, non era molto più grande di uno stazio dei carabinieri, stava lavorando alacremente un operaio, mentre tre soldati lo osservavano.

A un certo punto gli fecero rovesciare il contenuto di un sacco: c’erano solo pezzi di laterizi, ma uno dei tre soldati ci passò sopra con gli anfibi, schiacciando tutto accuratamente, mentre gli altri due osservavano. Tutto bene: adesso poteva rimettere i pezzi ben frantumati dei mattoni dentro il sacco, e portarli all’esterno.

Non ho mai capito che cosa avrebbe potuto nascondere il muratore lì in mezzo.

Circa tre ore dopo ci dissero che tutto era stato sistemato e che potevamo risalire a bordo. Uscimmo dalla hall, lasciammo il rumore assordante per inoltrarci nell’umidità e nella temperatura altissima. Salimmo sull’aereo, ci risistemammo sui nostri sedili. Poco dopo l’aereo rollò, decollò, le ali oscillarono, attraversammo diverse nuvole, le “luci cattive” si spensero: potevamo anche sganciare la cintura di sicurezza.

01 settembre 2013