ESTRATTO DAL CAPITOLO 1
Estate 1995.
Il tarlo che mi ossessiona ha un martello pneumatico in bocca e, trionfante, mi uccide un milione di neuroni a ogni ciclo di tumb tumb della punta, e non c’è organo, membrana o cellula del mio corpo che gli resista. Sono perduto: mi sono auto inflitto una condanna che sto per eseguire.
Un quarto di secolo fa Sonia recitava una cantilena e rideva, continuando a lungo in modo ossessivo: tutto era alterato, sbagliato e violava l’equilibrio della natura.
Quelle frasi, adesso, risuonano in me.
Gli uccellini brucavano l’erba
le mucche saltellavano di ramo in ramo
vidi uno scheletro ma senza ossa
afferrai un pugnale ma senza lama
la mattina mi svegliai ma ero morto.
[...]
In quei versi c’era qualcosa di sordido e demoniaco, evocavano lo sconvolgimento della natura e inoculavano nella mente le tragedie di Chernobyl, del Polesine e del Vajont.
Adesso sono immerso nell’ultimo spezzone di notte, mentre la sua lingua di puttana cerca di affondare nella mia gola arsa.
Una nuvola errante si sposta nel cielo liberando la luna piena, bassa e brillante.
Mi trovo al centro del vortice provocato dal volo di un pipistrello, sento l’aria smossa dalle sue ali. Si avvicina, si alza e si abbassa con acrobatiche curve, gli piace girarmi intorno e sfiorarmi: se non sapessi che è cieco, direi che mi vede. Una falena lo affianca e insieme iniziano una danza armoniosa nell’aria.
La notte svanisce: inizia la metamorfosi della tenebra in alba, come un treno che ogni giorno cambia binario.
Sono a dieci metri d’altezza, appeso a un grosso cavo inattivo della corrente elettrica, potrei precipitare in ogni momento ma, ad appena un paio di metri da me, c’è la finestra della casa da cui sono appena uscito, dunque, la mia follia è appena iniziata.
Quindici anni prima, 1980.
Il mio vaso di Pandora e la mia Waterloo le conobbi presto: non avevo ancora diciannove anni. La mia disfatta porta la firma di una ragazza misteriosa che soprannominammo Giglio Rosso.
Lei comparve in una giornata qualsiasi nel bar dove, in quel periodo, trascorrevo buona parte dei pomeriggi giocando a bigliardo col mio gruppo. Quel giorno sedette a un tavolino vicino alla finestra e, nonostante fosse una giornata molto calda, ordinò un punch al mandarino e più tardi un tè al limone, rimanendosene per tutto il tempo a leggere “Memorie da una casa di morti” di Dostoevskij.
Scostante, non rispose a nessuno degli innumerevoli tentativi di approccio dei miei amici, né alzò mai il viso dal suo libro.
Io, per il momento, la osservavo senza essere particolarmente incuriosito.
Quel giorno nessuno riuscì neppure a carpirle il nome.
Magra e longilinea, per via delle lunghe vesti bianche che indossava e della fluente chioma rosso rame, fu chiamata Giglio Rosso.
Nei giorni successivi tornò nel nostro bar, sedendo allo stesso tavolino e continuando a tenersi distante da tutti.
Arrivava verso le tre del pomeriggio, indossando sempre un lungo vestito bianco di lino, e portandosi sotto braccio “Le memorie da una casa di morti” la cui lettura pareva essere l’unica cosa che la interessava. Poi, qualche ora dopo, si alzava e senza salutare nessuno se ne andava.
Mentre camminava, sembrava non appoggiasse i piedi per terra: i suoi movimenti erano leggeri come se levitasse e, quelle poche parole che le avevo sentito dire quando ordinava da bere, mi avevano lasciato dentro una strana sensazione di suoni sussurrati.
- Prova a rivolgerle la parola e chiedile, tanto per essere originale, l’ora - mi disse Mario, con l’aria del viveur, e vedrai che non ti degnerà neppure di un’occhiata per farti capire subito che lei è di un’altra razza e i plebei non li guarda proprio. Quegli occhi, per quanto tu proverai a cercarli continuerà a negarteli, in una maniera che t’indisporrà e ti farà sentire umiliato, come se tu fossi qualcosa d’irrilevante. Noli me tangere! È quel genere di ragazza gelosa della propria persona: dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. Esprime col suo corpo quello che è evidenziato, con avvisi a caratteri cubitali, nei musei dove espongono oggetti delicati: guardare ma non toccare. È da una settimana che frequenta il locale ma non ha legato con nessuno: risponde solo con dei monosillabi. Da dove venga, chi sia, per quale motivo continui a venire qua non lo sa nessuno, darei un mese di stipendio per saperne qualcosa di più, naturalmente si fa per dire... poiché non lavoro e da questo genere di tormento Dio me ne scampi e liberi.
- Mario, sappiamo tutti come la pensi sul lavoro, - gli risposi tra il serio e il faceto.
[...]