ESTRATTO DA "L'IBERNISTA"

Iniziai a prendere il Prozac perché mi sentivo come un sacco vuoto. Avevo la sensazione di essere privo di scheletro, di muscoli e nervi, non riuscivo a rimanere in piedi che per pochi istanti e avevo continui colpi di sonno. Durante il giorno non facevo nulla: non leggevo libri né giornali ed essendo in malattia non lavoravo, né praticavo alcun tipo di sport.

Mi sembrava di poter svenire e precipitare a terra in ogni momento e così decisi di prendere appuntamento con il mio medico di famiglia il quale, dopo una visita approssimativa e qualche domanda, non ebbe dubbi sulla diagnosi e su come risolvere i miei problemi.

“La tua è una forma di astenia di natura psicotica, perciò ti prescrivo del Prozac che aumenterà il tuo tasso di serotonina, migliorando il tuo equilibrio psichico. Ti do anche degli integratori alimentari”, mi disse.

“Va bene, ma che cos’è precisamente la serotonina, dottore?”

“Lasciamo stare ‘precisamente’ e limitiamoci a dire che è l’ormone del buonumore”.

I miei pensieri parevano congelati e i movimenti erano sempre lenti come quelli di un bradipo: parlavo al rallentatore e tutto sembrava avvenire intorno a me con estrema lentezza. Se le mie giornate fossero state scandite da uno spartito musicale, l’indicazione del movimento sarebbe stata tra “lentissimo e larghissimo”. Restai a letto per alcune settimane non riuscendo a rimanere in piedi. La spossatezza mi dominava completamente e tutti i miei pensieri erano neri come la pece. Quando avvertivo gli stimoli corporali li trattenevo finché era possibile, perché scendere dal letto e recarmi al bagno mi costava troppa fatica: m’immaginavo di doverlo raggiungere strisciando come un serpente un attimo prima di esplodere come un palloncino.

Avevo sempre poco appetito, di notte non dormivo e di giorno risentivo delle ore insonni, a poco più di trent’anni ero single e non avevo desideri sessuali, ma in fondo era meglio così, perché non avrei avuto l’energia per uscire a cercarmi una compagna.

Ero sotto l’attacco di continui sbadigli, causati da una depressione fisica e mentale che mi stava bruciando. Mi percepivo come un’anima imprigionata in una gabbia di carne schiacciata dalla forza di gravità.

Fui anche percorso da strani pensieri suicidi, nel senso che se non fossi riuscito a guarire da quel male, pensavo che avrei potuto intraprendere una scelta estrema e risolutiva.

Soltanto quando dagli scuri filtravano alcune lame di luce lunare, chissà perché, ritrovavo un barlume di energia per recarmi in cucina e, come un topolino, mangiare un pezzo di pane con del formaggio, perché era tutto ciò di cui sentivo il bisogno.

La depressione che mi affliggeva era nata probabilmente a causa del mio nuovo lavoro, cui non ero ancora riuscito ad abituarmi, peraltro un impiego ben pagato e che svolgevo solo di mattina. In certi giorni tutto sembrava semplice ma in altri la tensione emotiva andava alle stelle e tutto diventava insopportabile.

 

Prima di questo lavoro avevo fatto il cameriere, il postino, l’aiuto salumiere, l’operaio alla catena di montaggio e perfino l’artista di strada.

L’ultima attività, piuttosto eccentrica, l’avevo intrapresa per seguire una ragazza che mi piaceva molto e mi aveva parlato di straordinarie avventure da vivere insieme con lei in giro per il mondo.

“Possiamo girare tutta l’Europa cominciando da Edimburgo, dove in agosto c’è il festival degli artisti di strada, poi spostarci a Londra, Parigi, Berlino… e oltreoceano”, mi diceva.

Invece restammo sempre a Venezia, senza dubbio una città fantastica che però non visitammo mai, perché dovevamo rimanere sempre fermi nello stesso punto, esposti a un sole infernale, e circondati da una moltitudine di turisti, che calavano come sciami di locuste nel centro storico già di primo mattino. Una notte mi sognai una nube nera fatta da orde di turisti volanti che arrivavano da tutte le parti calando sopra le nostre teste.

Io e quella cretina ci illudevamo di fare i mimi: dopo esserci colorati i volti e le mani con della pasta dorata, con un tricorno in testa e coperti da una specie di mantello, fingevamo di essere due statue. Il lavoro consisteva nel rimanere immobili sotto il sole rovente di una delle estati più calde e afose degli ultimi anni, in quei pochi metri quadrati che ci aveva assegnato il Comune di Venezia per la nostra performance.

La nostra esibizione era banale, pesante e la facevamo male, io più di lei, annoiandoci e stancandoci da morire. Gli spiccioli che racimolavamo durante il giorno bastavano appena per un panino, inoltre eravamo lo zimbello degli spettatori, che sono spietati quando dei presunti artisti pretendono una ricompensa senza saper suscitare nessuna emozione.

Ogni sera con i borsoni sulle spalle, esausti e sconfortati, prendevamo il treno per ritornare a Treviso, dove vivevamo entrambi. Un giorno, durante l’esibizione e tra l’ilarità generale, ci mettemmo a litigare ed io la piantai in asso, terminando così anche quell’esperienza di lavoro.

 

L’indomani avevo unicamente un sogno: trovare un lavoro onesto, stabile e ben retribuito, con degli orari che mi consentissero di riprendere gli studi interrotti. Quando l’occasione si presentò, fui raggiante: l’assunzione era a tempo indeterminato, la retribuzione ottima e avrei lavorato soltanto mezza giornata. Accettai al volo.

Certo niente è perfetto e quanto si presenta qualcosa di troppo positivo è inevitabile che ci sia il rovescio della medaglia, insomma, per farla breve intrapresi l’attività di necroforo, uno di quei lavori che nessuno vuole fare.

Fin dall’inizio m’imposi di pensare a un cadavere da ricomporre come a una persona che stesse dormendo. Il primo giorno tutto sembrò abbastanza semplice, assieme al mio collega Adolfo, una delle persone che oggi stimo di più, dovevamo preparare e vestire un uomo anziano che era morto il giorno prima. Il nostro compito consisteva nel prepararlo per l’ultima visita dei parenti. Mi occupai io di radergli la barba e stringergli un fazzoletto tra la testa e le mandibole, così come mi aveva insegnato il mio collega, perché la bocca rimanesse ben chiusa. Lo preparammo bene, tanto che i famigliari del morto ci manifestarono apprezzamento e, il giorno del funerale, insieme agli altri colleghi della mia squadra tutti vestiti in grigio-scuro, mi sentii parte di un picchetto d’onore.

“Tutto qui?” pensai. Il lavoro mi sembrava abbastanza semplice [...]