Un estratto dal cap.7
Il vento umido e insistente che tagliava la pianura padana quella sera sembrava fatto della stessa sostanza del buio. Sferzava il parabrezza del mio "ragno", il vecchio Fiat 238 che governavo come se cavalcassi un ronzino, tenendo in mano non un volante ma delle redini. L’automezzo avanzava con un lamento sordo lungo la strada sterrata, i fari scavavano faticosi pozzi di luce gialla nell’oscurità. Ero un puntino vivo in un deserto di capannoni dormienti, di ombre geometrizzate che rompevano la linea piatta dell’orizzonte. Destinazione: l’hangar abbandonato che Eddy mi aveva descritto con la sua solita, eccitata vaghezza.
Eddy, ex compagno universitario, incompiuto in qualsiasi cosa — e per questo a me affine. Fuoricorso per vocazione, che continuava ogni anno a iscriversi e a pagare le tasse, e se andava bene, a sostenere un misero esame. Aveva sei anni più di me; lo ricordavo come un vulcano di progetti mai finiti, dall’eloquio rapido e gli occhi sempre un po’ troppo lucidi. Dovevo aiutarlo con la nuova, delicata "coltivazione" che aveva in mente.
Seguendo le indicazioni di Eddy e la mappa che mi aveva spedito via email, mi ritrovai davanti a uno strano capannone. Parcheggiai il “Ragno” accanto a un cancello arrugginito e squarciato a metà, che pareva una faccia con un sorriso beffardo stampato per l’eternità. Spensi il motore, e il silenzio che calò fu così assoluto che, per reazione, le orecchie iniziarono a fischiarmi.
Quella struttura non sembrava un edificio, ma un organismo dormiente; i suoi vetri oscurati erano come occhi chiusi, che potevano nascondere un sogno o un incubo.
Scesi dall’auto ed entrai senza indugi.
Spinsi il portone massiccio, che era solo accostato, e cedette con un gemito da anima dannata.
L’odore che mi investì fu un caldo respiro clorofilliano, dolciastro, che strideva con l’aria metallica della notte. Davanti a me si dispiegò uno spettacolo che mi tolse il fiato. Il capannone era un’immensa cattedrale gotica del contrabbando. Dall’alto, dove il tetto era un reticolo di travi corrose, scendevano fili luminosi a sostenere mensole di alluminio. Su di esse, sotto la luce violacea e ipnotica di lampade al sodio, prosperava una foresta in miniatura. Foglie verdi, grasse, perfette, si stagliavano contro l’oscurità come opere d’arte viventi. Era una coltivazione idroponica, un giardino alchemico sospeso nel nulla. Un luogo di meraviglia cupa e meticolosa.
E in mezzo a quel chiarore artificiale, immobile come una statua, c’era un uomo. Alto, magrissimo, vestito con un abito scuro e antiquato. I suoi baffi, curatissimi, incorniciavano una bocca sottile. Ma erano gli occhiali, grandi e con lenti opache, a rendere quel volto un enigma impenetrabile alla luce violacea delle lampade. Nikola Tesla! Cioè, non lui, ma un suo sosia perfetto, una copia carbone delle foto d’epoca, piombato lì da un congresso di fantasmi scienziati.
Mi guardava in silenzio, immobile.
Potevo aver sbagliato posto? Impossibile. Quanti capannoni potevano ospitare una coltivazione di marijuana idroponica? Questo era l’unico nel raggio di centinaia di metri.
Non fece un gesto, non un cenno di saluto. Mi fissava, o almeno così immaginavo, da dietro quelle lenti opache. Io, sconcertato, feci quello che chiunque avrebbe fatto in una situazione del genere: ignorai l’intruso, mi allontanai di qualche passo e telefonai a Eddy.
Che cazzo succedeva? Gli squilli provenivano dalla tasca di quell’uomo, che dunque aveva il cellulare di Eddy. Che cosa gli aveva fatto?
Non avevo armi. E se fosse stato un agente in borghese? O, peggio, un criminale?
L’uomo non rispose, lasciò squillare il telefono senza scomporsi, poi alzò lentamente un braccio esile e, con il lungo indice, mi fece cenno di precederlo, indicando un angolo più buio della struttura.
Si creò una gag surreale e inquietante. Io continuavo a cercare con lo sguardo il mio amico, muovendomi con circospezione tra i tubi dell’acqua e i cavi elettrici, mentre “Tesla” mi seguiva a distanza, come un’ombra silenziosa. A un certo punto, esasperato, mi voltai di scatto. «Senta, io sto cercando Eddy, lo conosce?»
L’uomo si fermò. E allora, in quel silenzio carico di mistero, accadde l’impensabile.
Portò le mani al volto. Con gesti lenti e deliberati afferrò la pelle alle tempie e cominciò a tirare. Sentii un leggero strappo, il suono del silicone che si stacca dalla pelle. E da sotto i baffi di Tesla, da sotto gli occhiali, emerse prima un mento familiare, poi un naso e, infine, mentre la maschera si arrotolava tutta verso l’alto come un secondo cranio, gli occhi di Eddy. Quegli stessi occhi lucidi e vivi che ricordavo. Sorrideva, con un sorriso ampio e soddisfatto.
«Funziona, eh?» disse, mentre teneva in mano il volto di Tesla, ora ridotto a un oggetto floscio e inquietante.
Rimasi a bocca aperta, non tanto per lo scherzo quanto per la perfezione maniacale di quella maschera. Sembrava il lavoro di un maestro del trucco cinematografico. In quel momento capii qual era la vera passione segreta di Eddy, il suo talento incomparabile: non la coltivazione di piante proibite, né la fisica che continuava — chissà perché — a perseguire, forse convinto che la laurea potesse servirgli un giorno, quando sarebbe diventato adulto (mai).
Eddy rappresentava l’arte della scomparsa, la creazione di personaggi così credibili da plasmare la realtà, da ingannare un amico in un capannone desolato, trasformando un semplice appuntamento in un rito iniziatico di mistero e finzione. E in quel luogo di luci e ombre, mi resi conto che non sapevo più con certezza dove finisse il trucco e dove iniziasse l’uomo che credevo di conoscere.
«Ma vaffanculo, Eddy» gli dissi, lasciandomi andare a una risata incontenibile.
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