Pronto Soccorso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Mi girai, mia moglie era seduta nell’erba, silenziosa, bianca come un lenzuolo.

            - Cos'è successo?

            - Sono inciampata.

            Dopo mezz’ora il piede sembra l’otre contenente tutti i venti del mondo, che il dio Eolo consegna a Ulisse nell’Odissea.

            - Dobbiamo andare nella base di “Guerre Stellari” cioè al pronto soccorso! – le dico.

            Annuisce.

             Lentamente, mestamente, posiziono l’auto davanti all’ingresso di casa, ne spalanco la portiera anteriore: pronta ad accoglierla. Faccio, delicatamente, sedere la mia dolce infortunata sulla sedia dello studio, dotata di rotelle mobili e indipendenti, come gli occhi di uno strabico (ognuna va per conto suo), e spingendola lungo il vialetto di ingresso, dopo aver debordato un paio di volte nel prato, riesco a raggiungere la macchina.

            Sono quasi le otto di sera, avremmo dovuto mangiare l’anguria in veranda: l’avevo testata per bene, percuotendola con le nocche come se suonassi un tamburo. Suonava bene, ci avevo perfino preso piacere. Una tizia mentre lo facevo, rapita dal ritmo, aveva accennato due passi di rumba.

            L’ anguria era perfetta, ci avrei anche inciso un tassello e infilato dentro due sorsi di anice.

            Accendo il motore e ci dirigiamo nel luogo.

            Entriamo nell’ospedale che è una piccola Las Vegas di luci e rumori. Il luogo lo individuiamo dal simbolo che è quello delle cassette da pronto soccorso, e a cui convogliano molti cartelli indicatori.

            Arriviamo, parcheggiamo.

            Prelevo una delle loro professionali sedie con ruote, e intraprendiamo la discesa, seguendo la rampa che ci porta all’interno. Entriamo nel piccolo inferno ad aria condizionata: la temperatura scende improvvisamente di almeno dieci gradi rispetto all’esterno. Prendo il numero e ci sistemiamo per l’attesa insieme ad altre decine di pazienti. Eccoci nel cuore del deposito pacchi! Il silenzio è tombale, appena qualche sussurro e qualche timido lamento.

            Esseri provenienti da ogni luogo dell’Universo di tutti i colori, fogge, forme, mobili e immobili, popolano e creano con la loro temporanea presenza questo piccolo girone di inferno minore.

            Tagliati, azzoppati, incidentati, feriti, picchiati, intossicati, investiti ... o semplicemente confusi.

            - Mi scusi quanto dovremo attendere? – chiedo all’addetto.

            - Non si sa, avete codice bianco, - risponde - se non c’è un osso che fuoriesce dalla gamba, la testa che zampilla come un rubinetto Grohe aperto al massimo, non si strilla a squarciagola dal dolore, non si soffoca, non si è stati avvelenati, non si ha un infarto, un ictus, una crisi isterica o epilettica  … non si può dire.

            E’ il quarto livello, il più basso. Non c’è urgenza. Dipende anche da quanti pazienti arrivano e cos’ hanno. A volte si accumulano come nella raccolta dei fagioli. Avete presente?

            Seguo il carosello:

un tipo a torso nudo, a piedi nudi, di razza bianca, dall’accento fortemente romano, zoppica ciondolando da un estremo all’altro dell’ampia sala di attesa. Non sa proprio dove abbia messo i vestiti, tiene le braccia conserte. Avrà sniffato vernice?

            Nel deposito pacchi la sonnolenza è calata come dopo un potente colpo di clava sulla nuca, tutti sono immobili, è il gioco delle belle statuine dopo lo stop: chi ha un braccio inclinato verso l’alto, chi si tiene la testa, chi la gamba distesa, chi si tiene una mano, la pancia, un fianco, una scapola.

            Uno entra correndo, ha la testa rotta e cerca di tamponare la ferita con un asciugamano, lo segue quasi a passo un tizio con un fagotto tra le cosce: racconta all’infermiere-prete a cui si confessa pubblicamente, rompendo il silenzio del luogo, che mentre stava canticchiando sotto la doccia, improvvisamente ha iniziato a sanguinargli proprio lì tra le cosce, c’ha messo della scottex … boh?

            Ogni tanto da un angolo, disteso su un lettino, defilato e distante, alza appena la testa un africano, nero come il carbone, sgrana gli occhi, controlla l’orizzonte che lo circonda, riprende a dormire.

Poi il “cumulo di biancheria sporca”, accatastata su un altro lettino si anima, sospira, oscilla, si libra nell’aria:

            - Gonzales, - dice l’infermiere rivolto al cumulo – cosa fai questa notte? Dormi qui?

Bofonchia qualcosa, fa vibrare tutto, si rituffa sotto.

            Ogni ora chiedo del ghiaccio alla guardia: annuisce, entra in ufficio prende una busta bianca di ghiaccio secco, la colpisce con un pugno, ne frantuma il contenuto, me la porge. Ringrazio, è gentile. Slego dalla caviglia della mia Chicca la busta di ghiaccio calda e le allaccio quella fresca.

            Guardo nel cestino: ci sono quattro buste di ghiaccio secco, e le ho gettate tutte io.

Infine verso l’una di notte usciamo, riprendo la sedia a ruote, ritorniamo alla rampa: adesso finalmente spingo in salita.

            - Mi è andata bene ha detto l’ortopedico, la frattura del perone era netta e perciò me la cavo con meno di un mese di gesso – mi dice la mia Chicca.

            - Si, davvero bene.

            C’è uno spicchio di luna, color arancio, nel cielo pieno di stelle, e tra un po’ sparirà all’orizzonte. All’unisono, fischiettiamo “Azzurro” di Celentano, e finalmente torniamo alla macchina.

                                                                                          16 agosto 2013