Libellule d'acciaio

Fu mentre stavo guardando “Avatar” in 3D, di James Cameron, che pensai dopo molti anni, a quel periodo un po’ leggendario in cui vissi, come in un altro pianeta, tra le libellule di acciaio.

I ricordi si manifestarono improvvisamente e intensamente, mentre stavo comodamente seduto e tamburellavo sulle stanghette degli occhialini per la visione tridimensionale: in un altro tempo, quando ero un “Hardware Design Engineer”, avevo lavorato in una base militare americana.

Nel film di Cameron tutti si muovevano, parlavano, avevano qualcosa da fare, da suggerire, e c’era sempre qualcosa da modificare, da testare, da migliorare, proprio come avveniva in base allora.

C ’erano tante analogie!

 Forse il regista aveva trascorso anche lui un periodo della sua vita in un insediamento militare USA?

Gli avatar della base di Fort Rucker dove lavorai, non erano creature antropomorfe alte 4-5 metri, ma enormi libellule di metallo che di solito usiamo chiamare elicotteri.

Lì ogni pilota aveva la sua bella libellula-avatar da controllare, da testare, da comandare, che diveniva il suo cane fedele da addestrare, e su cui poteva contare.

Per tutto il mese di maggio rimasi a Fort Rucker dentro la foresta di Dothan, in Alabama, nel più grande centro elicotteristico di tutti gli Stati Uniti, nel profondo sud, tra gli scoiattoli, i mandrilli e le arachidi che lì mangiavano lesse e ancora gocciolanti acqua.

In questo pezzo volevo parlare di elicotteri, ma questo proposito, già dopo queste righe iniziali, si è dissolto per due ragioni:

1)  non ho più tanta voglia di parlare a fondo di cose tecniche;

2)  è sopraggiunto il ricordo intenso di una persona conosciuta in base, e di cui d’ora in avanti parlerò.

La prima volta che la vidi apparve bardata nella sua tuta da pilota, salutò in modo secco e deciso, secondo il modo che insegnano durante l’addestramento militare, con un volume di voce eccessivo, quasi urlando.

Disse così: “Hi to everybody!”

Tutti risposero al saluto, chi con un altro “Hi”, chi facendo un cenno con la testa, chi portando la mano alla fronte secondo il saluto militare.

Sbatté quasi il casco sulla sua scrivania che si trovava, incidentalmente, di fronte alla mia.

Sbuffò fragorosamente, si guardò attentamente le unghie, si riassettò i capelli, sedette distendendo le gambe sopra il tavolo, con un piede sopra l’altro, e incrociò le mani dietro la testa tenendo le dita intrecciate tra loro. Infine si lasciò andare all’indietro in un improbabile esercizio di stretching che ripeté diverse volte.

Aveva volato lungamente, appariva spossata.

Guardai i gradi appiccicati alla tuta di nomex antifuoco.

   - Ma è un capitano? – chiesi all’ingegnere commerciale che mi accompagnava in quella missione, e che passava più tempo in America che in Italia.

     - Si, ed è anche molto brava, coraggiosa, anzi spericolata. Sa fare, e fa frequentemente cose con l’elicottero, che fanno rizzare i capelli in testa alla maggior parte dei piloti uomini – mi rispose.

Per un anno intero avevo lavorato a un sistema elettronico che adesso, se avesse funzionato, avrebbe sostituito il vecchio sistema elettromeccanico dello Chinook CH44.

Lei credo fosse l’unica donna pilota della base, veramente molto carina, eppure nessuno l’avvicinava, nessuno le parlava.

Forse incuteva soggezione perché era un capitano, perché era una donna? Non trovai una risposta.

Pur essendo vicini di scrivania per settimane intere non andammo mai oltre il solito saluto. Del resto entrambi avevamo da fare, io a sviluppare calcoli, lei a preparare i piani di volo per il giorno dopo e a far telefonate.

Lei stava sulle sue, io stavo sulle mie.

Il tempo passava e i  test stavano andando bene,  a quel punto il mio nuovo sistema elettronico aveva ottime probabilità di essere adottato per lo Chinook.

Così le abitudini presero forma e si consolidarono: ogni giorno lei rientrava alla stessa ora : salutava, sempre declamando a voce alta la stessa frase, sbatteva il casco sulla sua scrivania, e seguiva la solita trafila che ho detto.

Fui io a rivolgerle la parola la prima volta, cose banali – perché si comincia sempre con leggerezza una conversazione tra sconosciuti - mi rispose gentilmente, e ricordo che chiuse le mappe su cui stava tracciando rotte... mi parve con soddisfazione.

Esordì dicendomi: - Italian, spaghetti e mandolino!

Per molti nel mondo siamo ancora questo.

E poi?

Cosa ci dicemmo quel giorno? Praticamente niente, non lo ricordo precisamente, le solite cose: sei stanca, il tempo domani, sta per arrivare il weekend ecc.

Parlavamo del più e del meno e, ogni giorno, quando rientrava dai voli conversavamo a lungo.

Un pomeriggio, dopo essere ritornata in base, mi parlò di quello che intendeva fare a breve.

         - Sto per congedarmi - mi disse.

     - Lascerò l’Army quest’anno e con i soldi che ho messo da parte comprerò un piccolo yatch con il quale porterò i turisti a pescare, pesca d’altura. Me ne ritornerò in Florida, vicino alla mia Miami Beach, basta volo! Soltanto: sole, aria, mare. Da adesso e per il resto dei miei giorni.

E un giorno:

     - C’ è un ristorante italiano nel paese qui vicino. Ti va di cenare assieme, stasera?

       - Con molto piacere - risposi.

Dopo aver parcheggiato la sua scomodissima jeep, con la quale raggiungemmo il paese, mentre stavamo camminando sul marciapiedi, da un’auto con dei neri a bordo uscirono tutta una serie di insulti irripetibili verso noi due,  e tutti a base di “fuck”, che nelle loro frasi ci stava sempre come il prezzemolo.

Gli occupanti dell’auto si sbracciavano dai finestrini mostrandoci il dito medio alzato, e senza rallentare lo facevano roteare, raggianti,  come se fosse un’elica.

Capito: detestavano la base, gli elicotteri, i piloti.

Lei non si scompose, io neppure. Li osservammo indifferenti.

       - A non tutti siamo simpatici - mi disse.

     - Come ruotavano i medi, sembravano proprio delle eliche – dissi. E ridemmo.

Quando entrammo nel ristorante i camerieri ci accolsero sorridenti e con un “ciao”. Io risposi nello stesso modo e cominciai a parlare in italiano facendo un lungo discorso, chiedendo molte cose e dandomi dopo un po’ anche le risposte, dato che ritardavano più del dovuto.

Perché? Oltre al saluto non sapevano nessun’ altra parola di italiano.

Sedemmo finalmente, e lasciai scegliere a Taylor (si chiamava così) il menù. Pensando di farmi una cortesia scelse spaghetti per entrambi, passò un po’ di tempo e infine arrivarono: porzioni molto abbondanti e… colla pura.

Taylor si riempì il piatto fumante di ketch up e di salsa francese e non so cos’altro aggiunse. E come bevande possibili nel ristorante avevano soltanto acqua, coca cola e birra.

Guardavo lei, guardavo gli spaghetti, li assaggiai senza condimento, si scioglievano come cialda. Lei li inghiottiva veloce come se fosse affamata, senza parlare.

Ebbi un’ intuizione!

     - E se mangiassimo una bella steak? -  le proposi.

     - Lei fece una risata fragorosa e si pulì la bocca con il tovagliolo.

    - Mi sembra un’ottima idea -  disse Taylor -  mangiavo velocemente gli spaghetti per finirli il più presto possibile, era una piccola penitenza che stavo facendo per te,  perché mi sei simpatico! – e aggiunse – toglimi una curiosità, ma come fanno a piacervi così tanto gli spaghetti in Italia?

Poi la sua femminilità esplose come un temporale improvviso e le sue fragilità vennero a galla come se riaffiorassero dopo tanto tempo e provenissero da profondità abissali.

Da un certo momento in poi iniziò a parlare sotto voce, quasi sussurrando. Il pilota che sbatteva il casco sul tavolo era svanito.

     - Lascio l’Army perché non ha più senso per me tutto questo – mi disse a un certo punto.

E poi ….

L’indomani nel tardo pomeriggio l’attesi ben oltre il solito orario, ma niente da fare. Mi parve strano. Ormai era ora di rientrare in albergo. Provai a chiedere di lei al primo pilota che incrociai.

  - Ho capito bene? Stai cercando Taylor? – mi disse, squadrandomi incuriosito- se ne è andata questa mattina, si è congedata, il suo periodo nell’ Army si è concluso – non tornerà più, è partita per la Florida. “Got it?”

E non lasciò nessun recapito.

Allora come un automa andai alla sua scrivania, sedetti sulla sua sedia, lanciai i piedi sul tavolo, proprio come faceva lei, incrociai le mani dietro la nuca e feci stretching e mentre facevo tutto ciò mi accorsi che sulla mia scrivania c’era un bigliettino.

C'era scritta una sola parola: “Remember … !”

E sotto questa, anziché la firma o il nome, l’impronta di una bocca con il rossetto: la sua.

                                                                                             02 giugno 2013