Gong

Katmandù, 1995

Fu mentre salivo i gradini del tempio di Swayambunath, uno dei luoghi di pellegrinaggio più popolari in Nepal, che mi ritornò in mente l’ombra immensa che intravvidi dall’oblò dell’aereo mentre stavamo atterrando:l’Himalaya, il simbolo di questo paese, che anche se non vedevi avvertivi, sempre. Lo pensai come un organismo enorme disteso verticalmente, avvolto in una sciarpa costituita da nebbia e nuvole, un pozzo fuoriuscito dal suolo, incombente, un’astronave madre in avaria, incastrata sulla terra, attraverso la cui superficie esterna era possibile quasi raggiungere la stratosfera. Una barrieracontro cui tutto si disperdeva: eventi atmosferici, persone, cielo.

Famelico Himalaya!

Il punto più alto della terra!

Quella montagna arrestava tutto, prendeva le vite di chi la sfidava, creava leggende.

Sentivo un caldo insopportabile quel giorno mentre salivo quella gradinata: il sudore mi imperlava la fronte, sentivo il fuoco, in particolare nei palmi delle mani, come se avessi delle righe di accendini accesi.

Mi ero fermato a un certo punto e con molta attenzione avevo controllato che tutte le cerniere dello zainetto fossero chiuse. Appena poco prima avevo visto una scimmietta portare via dalle mani di una matura turista indiana, con la velocità di una pistolera, il passaporto. La donna, che non doveva avere una tasca dentro il sari, aveva pensato ingenuamente che la cosa migliore fosse tenerlo tra le mani. In un attimo “quella pulce” glielo aveva sottratto dalle mani scomparendo tra le fronde. La povera donna aveva provato un tentativo puerile di rincorrerla, ma dov’era ormai?

Sedette sconsolata, in preda all’affanno, confortata dalle amiche che le dettero da bere del tè.

Quel giorno avevo  assistito dentro un tempietto, dedicato alla dea Kali, a dei sacrifici di galline e di un montone: vennero sgozzati. Quantitativamente mi parve una goccia d’acqua rispetto all’omicidio degli agnelli su scala industriale che si compie ogni anno da noi in concomitanza della Pasqua.

Salivo quegli antichi gradini, in un grande silenzio, di tanto in tanto incrociavo qualche monaco buddista, le tuniche arancio, le teste rasate, i sandali sempre puliti, morigerati, e sempre con un’espressione rilassata. Ogni volta che ne incrociavo uno pensavo al significato di  dedizione: allo studio, alla meditazione, al raggiungimento di un obbiettivo… qualsiasi. Come i nostri frati! Cambiava solo il nome.

Prima gli hippies, poi i fricchettoni seguiti dai punks, erano stati di casa in questi luoghi, per la stessa passione:l’ hascish! Che, ancora nel periodo di cui scrivo,  era abbondante come le zanzare d’estate da noi.

Improvvisamente avvertii un colpo di gong, riverberò, si espanse nell’aria, fece levare tutti gli uccelli dagli alberi, tutte le persone, monaci compresi, si misero spalle a muro e guardarono verso la cima dell’enorme scala.

Aprii e chiusi gli occhi, li strizzai, me li massaggiai, mi pareva di veder scendere dalle scale una nuvola irregolare e incontenibile.

L’Himalaya sta crollando, mi sta venendo addosso!

Improvvisamente mi arrivarono alle orecchie delle grida acute che echeggiavano, riverberavano con una potenza enorme. Erano grida selvagge e di gioia sembravano afferrarti e riportarti nella notte dei tempi.

Centinaia, forse migliaia, di piccole scimmie stavano scendendo per le scale: il gong segnalava che il loro pasto, giù a valle, era pronto per essere consumato, i monaci buddisti l’avevano appena preparato, e le stavano attendendo.

                                                                                             26 maggio 2013