Murphy

Allora ero in una fase di transizione, di passaggio: avevo una donna che non amavo ma che frequentavo con una certa regolarità. Era una relazione abbastanza piacevole, niente di più: lei non era la donna della mia vita, che sarebbe arrivata dopo, inaspettatamente, improvvisamente, come un dono e un innesto in una pianta sterile, indispensabile per produrre frutti.

Contemporaneamente avevo un’amica che doveva essersi innamorata di me, e che quasi ogni fine settimana mi chiedeva di andare a dormire da lei, con la scusa di ingelosire un altro.

Mi diceva:

             - Gigi passa ogni giorno sotto il mio appartamento, mi suona il campanello, e quando mi affaccio sulla terrazza mi saluta. Tu dovresti solo sporgerti appena, farti vedere da lui, ingelosirlo un po'.

Era evidentemente una scusa, ma lei non mi accendeva per niente.

Avrei invece dormito volentieri con la sua amica, che infiammava ogni mio elemento fisico e fantastico, ma che a sua volta aveva occhi solo per un altro.

E così, in quel tempo e in quello spazio, c’era un grande sfasamento: in quel mio piccolo mondo di allora eravamo tutti al posto sbagliato: palline di un'enorme roulette, dentro cui correvamo erratici e aleatori in attesa del successivo lancio del croupier Sua Maestà il Caso, senza avere ancora trovato la collocazione giusta.

Mi sentivo libero come l’aria, e l’agenda con i numeri telefonici che raccoglievo come se collezionassi francobolli, aumentava giorno dopo giorno, quasi vertiginosamente: se anziché parole e numeri avesse contenuto acqua, sarebbe stata sul punto di tracimare come un fiume in piena.

Lavoravo a Pavia, e quasi ogni fine settimana tornavo al Lido di Venezia dove avevo la mia famiglia. Ma in fondo allora mi mancava soltanto del calore immediato e istintivo, cioè il mio piccolo grande sogno sarebbe stato avere un cane.

E un fine settimana, tornando al Lido di Venezia, trovai una sorpresa che realizzava anche il mio sogno: nel giardino di mia sorella c'era una specie di "porcellino sui quindici chili ", un dogue de Bordeaux. Era un cucciolo spaesato, di appena tre mesi, eppure già con un peso e delle zampe inquietanti. Un molossoide appartenente a una razza di taglia grande, che mia sorella aveva acquistato in un allevamento di Vicenza, e figlio di genitori oversize, cioè da adulto sarebbe diventato enorme.

Una possibile macchina da guerra: i francesi dicono che avere un dogue de Bordeaux in casa è come avere una rivoltella! E che, anticamente, veniva fatto combattere con tori, orsi, iene e leopardi.

Ma anche, se allevato in famiglia, se trattato con affetto, una creatura fedele e dolcissima, e se messo a contatto con i propri figli una straordinaria baby-sitter.

Ah, non l'ho ancora detto: sto parlando di Murphy!

Quando lo vidi la prima volta mi si avvicinò, mi annusò, mi leccò la mano, iniziò a dimenare la coda e non si allontanò più. Gli piacevo, e altrettanto lui a me.

Nel tempo mi ci affezionai, come se fosse mio, anzi in una maniera quasi insensata. L’entusiasmo per un cane verso l’uomo, come si sa, è facile da manifestarsi e consiste nel dimenare la coda, e questo semplifica tutto nella comunicazione, perché non ci sono mai equivoci. Non c’era mai bisogno di discorsi lunghi, fumosi, inutili, tumultuosi a volte.

E lui non aveva sbalzi di umore, non c’erano sorprese con lui, ogni volta che mi vedeva, già da distante, mi segnalava la sua felicità nel rivedermi dimenando la coda e correndomi incontro, felice.

Meno di un anno dopo quando Murphy ormai adulto, sbadigliando annoiato, spalancò del tutto la bocca mi resi conto che non era molto più piccola di quella di un leone: se vi avessi inserito la testa ci sarebbe stata dentro del tutto.

Murphy non abbaiava, non ringhiava, andava sempre dritto per la sua strada mentre, viceversa, gli altri cani dall’interno delle case o dai giardini, quando ci sentivano passare latravano o addirittura guaivano, e più erano piccoli  più facevano rumore per niente, proprio come gli uomini.

E lui? Indifferente, come se non ci fosse nessuno: uber alles! (sopra tutti).

Poco dopo il prima anno di vita la sua altezza al garrese arrivò quasi a settanta centimetri e il peso era oltre i sessanta chili: se gli avessi messo una sella sul dorso avrei potuto cavalcarlo.

Se lo portavo in riva al mare - ad appena duecento metri dalla casa di mia sorella - escludendo i mesi invernali, amava immergersi nell’acqua lasciando spuntare solo la testa e stava così, immobile, per qualche minuto: sembrava in meditazione. Ma, nel pieno dell’estate, quando il mare si popolava di gente e barche, gli piaceva nuotare lungamente, come uno dei tanti bagnanti, tra i quali amava mimetizzarsi.

Come tutti i cani gli piaceva che lanciassi qualcosa distante per riportarmela, ma  in fondo gli bastava stare con me e seguirmi sempre come un’ombra, silenziosamente.

Quasi ogni settimana tornavo al Lido di Venezia e, quando lo facevo, una o due mattine le trascorrevo con lui.

Un anno ci fu un autunno con piogge lunghe e copiose, una settimana, in particolare, ci furono delle precipitazioni torrenziali. Nella campagna, prima del mare, si formarono delle pozzanghere enormi, quasi dei piccoli laghetti, sapendo quanto Murphy amasse l'acqua gli tolsi il guinzaglio e lo lascia libero. Appena lo feci si lanciò con un balzo dentro le pozzanghere dove iniziò a correre veloce come il vento e poco dopo a rotolarsi beatamente. Continuò finché non fu completamente esausto.

Quando emerse era la scultura di fango di un cane enorme.

Pensai che in fondo lo invidiavo: se avessi avuto il pelo più lungo e folto, mi sarei tuffato anch’io nelle pozzanghere a rotolare insieme a lui.

Ma il tempo volò, e i molossoidi vivono poco. Aveva appena sette anni quando, improvvisamente, cominciò a manifestare seri problemi fisici. Ricordo che mia sorella mi telefonò a Pavia:

            - Murphy sta male, da quasi un settimana non vuole più uscire , da alcuni giorni non mangia più niente, è dimagrito tantissimo, ha problemi ai reni, il veterinario dice che è grave e che non vivrà ancora molto.

Era un giovedì sera.

Presi un giorno di ferie.

            - Ho problemi famigliari, - dissi al lavoro - devo tornare subito a Venezia.

            Il giorno dopo ero seduto dentro il primo treno disponibile, in tarda mattinata ero arrivato.

Murphy come mi vide si alzò e, come al solito, mi infilò la testa tra le gambe: gli accarezzai il petto lungamente.

            - Dammi il guinzaglio – dissi a mia sorella - usciamo.

            - E’ inutile, non vuole uscire con nessuno.

E invece lui era già alla porta che mi attendeva.

Camminammo lentamente lungo i Murazzi che costeggiano il mare, dopo qualche chilometro sedemmo su una spiaggetta di sabbia fine, qui lo feci bere lungamente dalla bottiglietta di acqua fresca che avevo portato con me, perché la malattia gli provocava una grande sete, e dalla mia borsa a tracolla, ben avvolto nel nylon, estrassi la sorpresa: un osso enorme, un pezzo di femore di bue! Se lo sgranocchiò con grande soddisfazione, lo fece scomparire in poco tempo: come se avesse mangiato un pugno di noccioline.

Passammo una bella giornata, Murphy parve rinascere, apparentemente sembrava che tutto andasse bene, e invece… il giorno dopo ci lasciò per sempre.

Lo seppellimmo in un prato che si affacciava in Laguna, quasi di fronte all’ isola di Poveglia, e da cui in lontananza si intravvedeva anche il campanile di Piazza San Marco.

Sono passati tanti anni, ma ogni volta che torno al Lido passo sempre per quel posto e mi fermo un poco.

Di Murphy, insieme a molti ricordi, mi rimane la foto che accompagna questo racconto: credo sia abbastanza emblematica.

Molti pensano che gli animali non abbiano nè emozioni nè anima; personalmente, dopo aver conosciuto questo cane, dissento su entrambi i punti, e non ho dubbi.

(Nella foto: Murphy con mia nipote Camilla - Lido di Venezia, 1998)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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