Ricordi dall'India

India nord orientale, estate 1995. Procedevamo lentamente, lungo uno sterrato pieno di buche che tagliava l'ennesima foresta, dentro cui eravamo completamente immersi. Un oceano verde, a tratti inquietante, specie quando si udivano i fruscii sconosciuti della jungla e, in lontananza, gli urli delle scimmie

Per rompere la monotonia del lungo viaggio e la fatica che s'iniziava ad accumulare, andai a fare due chiacchiere con la guida. Tra le altre cose, pensando che fosse una domanda ridicola, gli chiesi se in mezzo a quella vegetazione sterminata ci fossero ancora delle tigri. L'uomo, pensando che la mia non fosse una domanda così stramba, senza sorridere mosse la testa beccheggiando solennemente, secondo la mimica del nostro “sì”, che invece in India significa "no".

"Un tempo le tigri c'erano anche qui", mi disse.

Ci stavamo recando a Khajuraho, dove avremmo visto i templi erotici edificati tra il 950 e 1050 d.C. e arrivati miracolosamente intatti fino ai nostri giorni, grazie alla scelta del sito. Infatti, proprio perchè molto isolata, questa città è sempre stata difficilmente accessibile e lontana dai grandi centri abitati. Elementi che hanno contribuito, nel tempo, a evitare le profanazioni degli invasori musulmani che, invece, hanno inflitto mutilazioni e devastazioni in molti templi dell’India. Nel 1986 i templi di Khajuraho furono inseriti dall'UNESCO nella lista dei patrimoni dell'umanità.

Nella mente mi rimanevano ancora come dei flash, le immagini intense di Varanasi da dove provenivamo: la città sacra degli induisti che un tempo si chiamava Benares. Percepivo ancora il velo della morte che la avvolge perennemente con il crepitio delle pire accese che, ventiquattro ore il giorno, bruciano i corpi dei defunti all'aperto, ammorbando l'aria dell'odore di carne bruciata. Mi risuonavano dentro i canti provenienti dalle barche lungo il Gange, dove i famigliari dei defunti spargevano le ceneri dei loro cari insieme a candidi fiori bianchi. Rivedevo le cataste di legna che bruciavano i corpi per liberarne le anime, come dicono gli induisti, e poi mi ritornava in mente l'immagine di un grosso cane randagio che si avvicinava a una pira quasi spenta e poi correva via veloce con un piede umano in bocca.

In India, a ricordare il lungo passato coloniale inglese, circolano tutti a sinistra. Un paio di volte, attraversando la strada, rischiai di essere investito per l'abitudine, difficile da dimenticare, di guardare sempre prima a sinistra e poi a destra.

Il centro di Benares realizzava il caos perfetto: auto, motorini, biciclette, mucche, elefanti, risciò e pedoni, tutti intimamente mescolati per mettere in onda il cocktail del disordine. In certi punti delle strade, c'erano cumuli di escrementi bovini, dove si poteva affondare fino al ginocchio.

Piovigginava sempre in quel periodo di agosto perchè eravamo nel pieno della stagione delle piogge. In quel gruppo eravamo tutti europei, né adatti né abituati a quel clima, a quel cibo, a quell’acqua, a quegli insetti. Durante il viaggio, diverse volte, il pulmino s’era arrestato improvvisamente e qualcuno era sceso di corsa sparendo tra i cespugli a causa della dissenteria.

Poi, finalmente, vedemmo tutto intorno a noi il cielo e l’orizzonte che diventarono sgombri per chilometri: la vegetazione finalmente stava scomparendo.

Con l'autobus guadammo un fiume, dove una piccola cascatella scendeva da uno sbarramento di cemento: poco distante doveva esserci una centrale idroelettrica. Le ruote del pulmino s'immersero nell’acqua per almeno trenta centimetri e, appena al di là, ci fermammo per una sosta di un’ora.

Finalmente una pausa.

Sull'altra riva del fiume che avevamo appena guadato, s'intravvedevano gruppi di piccole scimmie che bevevano chinate sull'acqua.

Io passeggiavo su e giù quando, improvvisamente, mi accorsi del sadhu. La parola sadhu deriva dal sanscrito e significa uomo di bene, sant'uomo: è un induista asceta che dedica la propria vita all'isolamento e all'abbandono dei piaceri materiali. Si dice che in India i sadhu siano presenti fin dalla preistoria.

L'asceta comparve dal nulla, non compresi da dove provenisse, intorno sembrava esserci solo deserto. Si avvicinò lentamente.

Era così magro che pensai si nutrisse di briciole, una volta il giorno, insieme agli uccellini. Si fermò a un metro da me e mi fissò a lungo negli occhi senza parlare: ma non saprei dire per quanto tempo. Anch’io feci altrettanto, provando una sensazione che neanche oggi, a distanza di tanti anni, riesco a descrivere.

Infine sorrise, e mosse la testa secondo la mimica del nostro “no” che in India, come ho già detto, significa: "sì".

Sedette di fronte a me, invitandomi a fotografarlo una sola volta: alzò e abbassò l'indice.

Lo feci.

Click.

Mi girai rivolgendomi ai miei compagni di viaggio:

"Chi è?"

"Chi?", mi risposero.

Lui non c’era più.

Nessuno l’aveva visto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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