Stasera uscendo indosserò un cappotto di nebbia fitta

4. Onde, "Heil" e avvoltoi

“Scivolato via da onde alte, lunghe, intense, evitando montagne di acqua che avrebbero potuto sommergermi…

Adesso sono a riva, dove scorrono delle splendide giornate estive, permanentemente soleggiate. Ogni tensione sembra lontana e remota, di un altro tempo e di un altro mondo, il che si sintetizza con una sola parola: armonia... ritrovata o forse mai avuta prima“

 

Dopo aver vissuto in simbiosi con i monitors e la rete per anni, a osservare i grafici degli indici di borsa come se fossero stati bei fiori colorati, stavo abbandonando finalmente e definitivamente questa fase di vita insana e inutile.

Tranquillo, fuori dalla follia delle tensioni speculative, adesso volevo riprendere a usare il computer solo per narrare, per far vedere al mondo quello che avevo prodotto dentro di me nell’ultimo periodo di vita, e quello che avevo scritto molti anni prima e che era finito nel fondo di un cassetto.

“Ormai a riva” stavo imparando una cosa nuova e divertente: l’arte dell’immobilità.

Chicca, talentuosa e appassionata artista, mi ritraeva quasi giornalmente. Da uomo più o meno normale ero diventato per una donna, improvvisamente, stupendo e mi cimentavo in qualcosa che non avrei mai pensato di fare nella vita: il modello. Mi prestavo con grande serietà: ora nudo, ora vestito, nelle pose più strane, articolate e impegnative.

            - Stenditi così, tieni la spalla più rilassata, raccogliti di fianco, sposta il viso… - erano alcune delle tante indicazioni precise che mi dava Chicca, giornalmente, prima di iniziare a lavorare.

            -Ti sei spostato.

            - Chi, io? Di quanto?

            - Di troppo.

            - Sto imparando, però! Ma… quanti ritratti pensi ancora di farmi?

            - Parecchi.

A stare immobile mi venivano anche colpi di sonno che, quando si manifestavano, anticipavo declamandoli:

            - Mi appisolo un po’, qualche minuto mi basta.

            - OK, io continuo a lavorare, dormi senza muoverti.

Una di quelle volte, dopo neanche trenta secondi, squillò il telefono.

Impossibile! Mi dico.

Lei è qui, Max è in Africa, non faccio vita sociale da tempo, chi può essere?

Rispondo, e sciogliamo il mistero.

            - Ciao sono Yvan, ho chiamato te perché il telefonino di Chicca è spento  – mi dice la voce all’altro capo.

            - Sì, Chicca è qui con me.

            - Sì, lo so. Voi due siete gli unici di cui mi fido. Un mercante d’arte vorrebbe incontrarmi, mi ha telefonato dicendo che intende farmi una proposta molto vantaggiosa, cioè comprare tutti i miei quadri in blocco. Io gli ho risposto che possiamo parlarne purché siano presenti i miei due nipoti, cioè mia nipote e il suo compagno, sì… voi due!

            - Grazie per averci nominato come nipoti. Va bene, ci saremo.

            - Sai Frank, questo incontro mi ricorda tanto il volo degli avvoltoi quando dall’ombra di un’oasi annusano l’odore del cammello moribondo sotto il sole a picco.

            - Caspita!

Yvan, sostanzialmente, era un uomo solo da molto tempo. Adesso preciso meglio: formalmente aveva un fratello molto anziano, un ex tenente colonnello dell’aviazione, pilota di aerei, una figura di dannunziana evocazione, che durante la seconda guerra mondiale, come pilota di aerei, si era distrutto una spalla precipitando in una palude.

Naturalmente salvandosi, perché la cattiveria crea come una corazza di acciaio inox 1810.

Un uomo rigido, insensibile, una specie di robot, come si poteva capire quasi immediatamente conoscendolo, o anche soltanto vedendolo.

Una volta, mentre stavo passeggiando con Chicca lungo la riva delle Zattere a Venezia, lo incrociammo secondo una rotta quasi di collisione e ce lo trovammo davanti all’improvviso. Chicca fece appena in tempo a sussurrarmi: oh no! Oh no! Adesso vedrai.

Lei, l’aveva conosciuto un po’ di tempo prima, e lui doveva esserne stato particolarmente colpito dato che, ogni volta che la incontrava, faceva scaturire delle scenette anacronistiche. E così fu anche allora: si fermò, batté i tacchi e fece una specie di baciamano.

Forse io avrei dovuto sollevare il braccio e dire Heil?

Indossava un impermeabile scuro, chiuso strettamente in vita con la cintura, con gli stivali di gomma perché quel giorno a Venezia doveva esserci stata l’acqua alta ma, almeno… non aveva le mostrine alle spalle.

Mi limitai semplicemente a osservare, spostandomi di fianco con le braccia conserte, la pantomima che si stava svolgendo. L’agenda mi confermava che eravamo proprio nel 2002 e non nel 1942.

Chicca non me lo presentò, e fece benissimo.

            - Devi farti raccontare da Yvan che tipo sia e perché tra loro non c'è nessun rapporto.  

E cosi feci alla prima occasione:

            - Siamo come l’acqua e il fuoco, incompatibili - esordì Yvan iniziando a raccontarmi del loro rapporto definitivamente compromesso. – Gli episodi sarebbero tanti, ma te ne racconto uno che vale per tutti: molti anni fa, decenni fa, un tempo quasi pari alla tua età, vivevo con Romana la donna della mia vita, pittrice anche lei, morta prematuramente. Un giorno, mentre stavamo lavorando, suonano al campanello. Ripongo i pennelli e vado ad aprire: all’uscio si presenta mio fratello. Questo mi rende contento, penso che sia venuto a trovarmi e che desideri conoscere la mia compagna. Gli dico: - vieni, accomodati, cosa posso offrirti?

            - Ho le scarpe che non sono lucide ed ho un appuntamento importante, hai uno straccio per pulirle? – mi risponde.

            - Francesco - gli dico, ti presento Romana.

            - Sì, va bene – rispose. Non le allungò neppure la mano, non la degnò d’uno sguardo.

            - Ho fretta - disse – devo andare.

            - E dopo essersi passato con energia lo straccio sulle scarpe, senza neppure alzare la testa, se ne andò.

Mio fratello non sopportava gli artisti e davanti a sé, quel giorno, se ne trovò addirittura due, che vivevano insieme senza essere sposati, che in quegli anni poteva dar fastidio a certa gente.

Yvan mi raccontò anche altri episodi, molto tristi, e ogni volta, aggiungeva qualche nuova amara osservazione, e pareva liberarsi un po’ di più.

 

L’ appuntamento con il mercante d’arte era fissato per sabato pomeriggio, a casa di Yvan a Venezia.

Dunque, il mercante entrò, Yvan lo squadrò, e non gli piacque. Si ritirò in un mutismo ostinato, rifugiandosi, come faceva in questi casi, nel suo mondo. Quel giorno io e Chicca dovemmo gestire la visita dell’uomo che, per la verità dopo poche battute non piacque neppure a noi. Invadente, cominciò a girare per l’appartamento-atelier, come se fosse casa sua e per le opere come se si trattasse solo di organizzare il trasporto. Senza dire niente iniziò a girare i quadri che, in quell’occasione vidi anch’io per la prima volta, e a curiosare ovunque.

Lo ripresi:

            - stia fermo, faccio io, li giro io i quadri - dissi, un po’ infastidito da tanta sfacciataggine.

Tutti, escluso Yvan, guardavamo i quadri, noi con grande emozione, l’uomo con grande interesse.

Le coincidenze: il mercante era dotato di un naso aquilino molto pronunciato, un pomo d’Adamo sporgente, e una struttura fisica asciutta e longilinea, con una postura considerevolmente inarcuata.

Era facile accostarlo a uno di quelli avvoltoi nell’oasi, in attesa del vecchio cammello, come nella metafora di Yvan.

Infine più tardi, dopo aver esaminato centinaia di quadri, le palpebre dell’uomo parvero ruotare come se i suoi occhi fossero i display di una slot-machine, che andassero a cercare i simboli da allineare, per dare l’importo della sua vincita.

Propose una cifra per acquistare tutto in blocco.

Udimmo.

Io e Chicca ci sbellicammo dalle risate, ci vennero i singulti, Yvan, vedendo che ridevamo, si scosse dal torpore e ritornò tra noi, contagiato, iniziò a ridere anche lui. Mi avvicinai e gli dissi la cifra che gli aveva proposto e le risate si intensificarono. L’unico serio era l’uomo-avvoltoio che, mentre eravamo piegati su noi stessi, aggiunse:

            - E’ troppo basso? Ho esagerato? Posso anche arrivare a …

Ma non lo ascoltavamo più e continuammo a ridere, e mi vennero le lacrime agli occhi. Accompagnai l’uomo alla porta e, mentre usciva, partì, indipendentemente dalla mia volontà, un calcio diretto al suo sedere, che andò a vuoto per un soffio.

Le opere d’arte, preziose, emozionanti, dai bellissimi e illimitati colori, e di tutte le dimensioni, che percorrevano una fetta di vita, di storia, di estro, erano ancora lì. Dal figurativo e poi all’astratto dell’inizio, al simbolismo e al surreale dell’ultimo periodo.

L’affare era definitivamente sfumato, e a nessuno di noi fregava niente.

(continua 5.)

                                                                                         28 marzo 2013